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Terapia Assistita con Cavalli

La terapia assistita con il cavallo

La terapia assistita con cavalli è una terapia dolce e coinvolgente che utilizza il cavallo come mezzo terapeutico.

Fa parte delle TAA (Terapie Assistite con Animali), interventi a valenza terapeutica finalizzati alla cura di disturbi della sfera fisica, neuro e psicomotoria, cognitiva, emotiva e relazionale.

La principale terapia assistita con cavalli è la Riabilitazione Equestre, che si articola in varie discipline, tra cui l’ippoterapia e la rieducazione equestre. L’ippoterapia costituisce l’approccio iniziale al cavallo e al suo ambiente; prevede attività a terra e attività sull’animale con l’accompagnamento del terapista che tiene il cavallo alla longhina.  Nella rieducazione equestre il cavaliere viene coinvolto nella guida attiva del cavallo, per cui si lavora non solo sugli obiettivi strettamente terapeutici ma anche sull’acquisizione delle tecniche di equitazione.

Per quali disturbi è indicata

La RE trova indicazione  in persone con patologie di diverso tipo: da una parte si ha l’instaurarsi di una complessa interazione cavallo/cavaliere che diviene fondamentale nel caso di  problematiche psichiche, dall’altra la peculiarità della “posizione” assunta a cavallo e del suo movimento risulta estremamente utile per il trattamento della patologia neuromotoria (acquisizione di migliori competenze posturali e di equilibrio, regolarizzazione del tono muscolare e della forza) (Pasquinelli, 2009).

Per quanto riguarda l’ambito psicologico, la Riabilitazione Equestre può rappresentare una valida modalità terapeutica per diverse problematiche di tipo cognitivo, comportamentale e psico-relazionale. Ad esempio, può essere utile in caso di insufficienza mentale, disturbi di attenzione, iperattività, disturbi della condotta, disturbi dell’umore, difficoltà di adattamento, difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Nel “montare” il cavaliere è coinvolto in un rapporto fatto di pace e conflitto, essendo il cavallo in grado di tirare fuori le parti migliori e peggiori del carattere di ognuno. Nel rapporto con l’animale, il cavaliere necessariamente canalizza le forze dell’inconscio e le armonizza con la realtà, governando e non reprimendo le pulsioni istintive e imparando ad usare insieme cuore e cervello (Papini, Pasquinelli, 2009).

L’aiuto del cavallo in ambito psicologico

Le attività con il cavallo favoriscono la capacità di prendersi cura dell’altro e di sé, lo sviluppo dell’autostima, dell’autonomia e del senso di responsabilità. Il lavoro di gruppo inoltre stimola le abilità di tipo relazionale.

Con la riabilitazione equestre si ha l’opportunità di apprendere e di conoscere se stessi attraverso la partecipazione attiva e l’esperienza diretta, nell’ambito di una relazione “privilegiata” con il cavallo e in un ambiente, quale il maneggio, accogliente e ricco di stimoli ma al tempo stesso strutturato e definito da regole.

Ognuno si conosce attraverso l’esperienza del conoscere cose, persone, situazioni e vedere come reagisce ad esse. Goethe

Per i disturbi della sfera psicologica è possibile inoltre attuare percorsi di Psicoterapia Equestre, in cui il cavallo viene utilizzato come facilitatore del processo terapeutico, e contribuisce ad aiutare la persona sotto diversi punti di vista: sociale, emotivo, cognitivo e comportamentale.

Lavoro d’equipe

In conclusione, ritengo importante ricordare che tutte le terapie assistite con cavalli richiedono il lavoro di un’equipe multidisciplinare, in grado di gestire la complessità della relazione uomo-animale.

Ansia: che cos’è?

Ansia: come si manifesta

L’ansia è un’emozione caratterizzata da sensazioni di tensione e di minaccia. La persona in stato d’ansia prova paura, apprensione e preoccupazione. Può sentirsi irrequieta e incerta.

Lo stato emotivo è spesso accompagnato da sensazioni fisiche, come tachicardia, sudorazione, tremore, vertigini.

Ansia fisiologica e patologica

L’ansia, di per sé, non è patologica. È una condizione fisiologica che può essere utile per proteggerci dai rischi e migliorare le nostre prestazioni. Ci mette in allerta e ci dà la motivazione per affrontare eventi o situazioni potenzialmente difficili. È quella che ci permette di studiare al meglio per superare un esame o di allenarci in modo adeguato prima di una gara sportiva.

Diventa patologica quando:  

  • compare con elevata frequenza ed eccessiva intensità;
  • interferisce con la nostra prestazione;
  • si associa ad eventi neutri, che non sono realmente rischiosi;
  • ci costringe all’evitamento delle situazioni temute.

L’ansia patologica perde la sua funziona adattiva. Non costituisce più una risorsa per l’individuo, ma diventa una problematica. Infatti, inizia a compromettere il nostro funzionamento. Ci rende incapaci di affrontare comuni situazioni di vita quotidiana. Ad esempio, può interferire con la qualità del nostro lavoro, può impedirci di sostenere un esame universitario, di guidare l’auto o di entrare in un supermercato.

La durata dei sintomi è fondamentale per capire se si tratta di un vero e proprio disturbo. Possiamo parlare di un disturbo d’ansia se i sintomi durano almeno sei mesi negli adulti e almeno quattro settimane in bambini e adolescenti (DSM–5, American Psychiatric Association, 2013).

Quando i vissuti ansiosi diventano più intensi o frequenti, è utile effettuare una prima consulenza psicologica. Possiamo così valutare la necessità di un intervento psicoterapeutico. Intervenire in modo tempestivo ci permette non solo di stare meglio, ma anche di evitare che l’ansia si autoalimenti e diventi più grave nel tempo.

Perché il mio bambino non dorme?

Perché il mio bambino non dorme?

Quando nostro figlio non dorme, spesso non riusciamo a capirne il motivo e ci preoccupiamo del suo stato di salute. Sono vari i fattori che possono influenzare il sonno di un neonato o un bambino piccolo. Vediamoli insieme qui di seguito.

Età del bambino. Ogni tappa evolutiva ha delle caratteristiche specifiche, anche riguardo ai ritmi di sonno-veglia. Il sonno di un neonato di tre mesi è molto diverso da quello di un bambino di tre anni.  Inoltre, capita che una fase di sviluppo, in cui il bambino acquisisce nuove abilità (fisiche e mentali) porti con sé una regressione transitoria in un’altra area di funzionamento, ad esempio nel sonno.

Disturbi fisici, cronici o transitori (ad esempio reflusso, dentizione, febbre, raffreddore).

Eventi stressanti o cambiamenti importanti nella vita familiare, come lutti, traslochi, nascita di un fratellino.

Conflitti e tensioni familiari.

Stato emotivo dei genitori.

Temperamento del bambino, presente fin dalla nascita. Un bambino con temperamento “vivace” fa più fatica ad abbandonarsi al sonno e a riaddormentarsi dopo un risveglio, rispetto ad un bambino con temperamento “tranquillo”.

Rapporto con i genitori. Il momento di addormentarsi non è soltanto il passaggio fisiologico dalla veglia al sonno, ma rappresenta per il bambino una separazione dall’ambiente e soprattutto dai genitori. Dai 6 mesi di vita, il bambino inizia a percepirsi come un individuo, distinto dalla madre, e a riconoscere i genitori come figure di riferimento affettivo. Addormentarsi significa “lasciare” mamma e papà e i risvegli possono essere un’occasione di riunione e di rassicurazione.

Variabili ambientali e comportamentali. Sono le modalità concrete con cui i genitori gestiscono l’addormentamento e i risvegli del bambino. Come i genitori predispongono l’ambiente per la nanna, dove e come addormentano il figlio.

Tutti questi fattori sono interconnessi e possono influenzarsi in modo reciproco. Quindi, è molto difficile individuare una singola causa del problema di sonno.

La prima cosa da fare quando un bambino fatica a dormire, è consultare il pediatra che può valutare lo stato di salute generale del bambino e l’eventuale presenza di disturbi fisici.

Inoltre, la consulenza psicologica sul sonno dei bambini aiuta i genitori a comprendere la complessità della problematica e ad intervenire sui diversi aspetti coinvolti.